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Daniele Mencarelli (né en 1974 à Rome) est poète et romancier. Son dernier recueil, paru en 2019, s’intitule Tempo Circolare (poèmes recueillis entre 1997 et 2019). Son premier roman, La casa degli sguardi, Mondadori (couronné des prix Volponi et Severino Cesari, ainsi que le prix John Fante du premier roman), date de 2018. Tutto chiede salvezza, son deuxième roman, paraît en 2020 et remporte le prix Strega Giovani. Sempre tornare (Toujours revenir) conclut une trilogie autobiographique idéale, entamée par La casa degli sguardi.

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Sempre tornare (Toujours revenir)

C’est l’été 1991, Daniele a dix-sept ans et ce sont ses premières vacances seul avec des amis. Deux semaines loin de chez lui, à savourer pleinement plages, discothèques, alcool et filles. Or ce qu’il n’a pas encore accepté : c’est lui-même. Un petit désagrément dans la nuit du 15 août suffira à Daniele pour qu‘il quitte le groupe et continue le voyage à pied, seul, de la Riviera Romagnola vers Rome.

Il fera toutes sortes de rencontres ; des gens perdus dans leur solitude mais capables de sursauts d'humanité, d’autres qui sombrent dans un abîme de folie, des vaincus de la vie ou des brutes incurables. Et il rencontrera l’amour, dans les yeux bleus d‘Emma. Mais Daniele va surtout se rencontrer lui-même, dans un dialogue intérieur intense. Il interprète et questionne sans cesse tout ce qui lui arrive, avec l’urgence de dévorer le monde typique d’un jeune de dix-sept ans, avide de tout comprendre et, surtout, de se comprendre lui-même.

Agent / Rights Director

mc.olati@gmail.com
Maria Cristina Olati (agent)

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Excerpt

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Una Kadett gialla.

Di taxisti me ne sono capitati parecchi. Ce n’è uno che è una mia presenza fissa, un signore che parte dai Castelli per andare a lavorare a Roma. Non è per cattiveria, ma quando vedo la sua macchina in avvicinamento smetto di fare l’autostop, alcune volte mi levo proprio dalla strada. Lui però si ferma lo stesso. Per carità, è una persona per bene, simpatica, solo che ha un problema serio, e io non so davvero come dirglielo. Alle medie avevo una professoressa con lo stesso difetto. L’alito. A livelli che non dovrebbero esistere sulla faccia della terra.

«Devo arrivare a Casa del Diavolo.»

«Io arrivo là vicino.»

Il taxista fuma le stesse sigarette dei miei. Emmesse dure.

«Vado al Red Zone, la discoteca.»

«Ogni tanto ci porto qualcuno.»

«Sta andando lì?»

Magari mi faccio lasciare di fronte all’ingresso, non ho i soldi per entrare, però farei un arrivo in grande stile.

«No, ho una chiamata da una via che sta dall’altra parte della frazione, ti devi fare una bella passeggiata per arrivarci.»

«Io mio chiamo Daniele, lei?»
«Armando.»

Io non so se questo fatto del nome offerto e richiesto abbia veramente a che fare con la buona educazione. A pensarci, credo nasconda la paura che mi prende tutte le volte che monto su una macchina guidata da uno sconosciuto, per giunta di notte, per giunta lontano da casa, senza che nessuno sappia minimamente dove mi trovi. Perché un po’ di paura c’è sempre.

Sapere il nome del mio benefattore di turno mi illude di conoscere, seppur di poco, la sua identità, e le sue intenzioni. Ma dentro di me c’è sempre una parte in allerta. Armando potrebbe fermare la macchina, tirare fuori dal portaoggetti del suo sportello un cacciavite e piantarmelo in gola, così, senza problemi, per poi sotterrarmi in mezzo a uno dei tanti boschi della zona.

«Lei, Armando, di dov’è?»

«Perugia.»

«È sposato?»

«Separato.»

Intanto, la Kadett passa accanto al cartello che riporta a lettere nere su sfondo bianco il mio punto d’arrivo: CASA DEL DIAVOLO.

«Ti lascio all’imbocco della prossima via.»

«Grazie.»

Scendo e la respirazione torna a essere regolare. Mi ero impaurito, mi succede spesso, basta tenere la mente a briglia sciolta e il risultato è assicurato.

Stupido che sono. E se anche avesse avuto brutte intenzioni mi sarei difeso, invece era uno per bene, come tutti quelli che mi sono capitati sino a oggi.

E poi fumava le Emmesse dure.

Non poteva essere cattivo.

Inseguo una cassa dritta, martellante.

Nell’aria c’è solo il battito del Red Zone, cerco di andare nella direzione della musica, ma non ha una provenienza precisa, anzi, si sposta attorno a me in continuazione. Il mio traguardo si trova in via Fratelli Cervi. Facile a dirsi.

Non vedo luci, nemmeno in lontananza, le case, i capannoni, sono sprofondati nel buio, come le strade. Questo posto sembra disabitato.

Soltanto i fari delle macchine illuminano quello che ho attorno, mi sfrecciano accanto spostando l’aria, come li vedo provo a chiedere un passaggio, ma è davvero troppo buio. Dalla valigia tiro fuori il maglione che preferisco, è di cotone, blu, l’aria inizia a essere fresca, arriva a sbuffi leggeri dal prato che ho di fianco.

Proprio lì, nell’erba, a non più di un paio di metri di distanza, vedo qualcosa. Come una luce. Più che paura mi gela il terrore. Guardo al meglio che posso. La luce riappare, poi un’altra vicina. Gli occhi lentamente mettono a fuoco, un tappeto si accende a perdita d’occhio, fino agli alberi lontani.

Il terrore diventa meraviglia, stupore, incanto.

Ne avevo solo sentito parlare, al massimo viste nei cartoni animati.

Un popolo di lucciole balla ai miei piedi.

Come stelle danzanti precipitate sulla terra.

Uno spettacolo che mi toglie le parole.

Luce nel buio.

La bellezza va vissuta, qualsiasi racconto, per quanto preciso, sapiente, non può dire la gioia di fronte a certe visioni, né la gratitudine che arriva a colmare gli occhi di lacrime.

Fari in lontananza. La luce artificiale nasconde quella microscopica della natura.

Scatto con il pollice, subito dopo accendo il sorriso.

Un pezzo techno rallenta.

Si ferma una Renault 5.

«Andate al Red Zone?»

«Ma che vieni a balla’ co’ ’a valiggia?»

La macchinata esplode in una risata a più bocche. Il dialetto è il mio. Sono romani.

«Me potete da’ un passaggio?»

Il ragazzo con cui sto parlando ha i capelli lunghi e gli occhi allucinati. Ha le pupille dilatate, quindi o cocaina o pasticche, ormai so riconoscere abbastanza bene le sostanze, a partire proprio dagli effetti che hanno sugli occhi.

Dei passeggeri sul sedile posteriore vedo le tre teste, ma non c’è abbastanza luce per cogliere appieno i visi.

«E ’ndo te mettemo? Semo in cinque. Se vòi te piamo ’a valiggia.»

Altra risata stronza.

«Oppure aggrappate ar tettino.»

La Renault 5 riparte sgommando.

Li seguo per qualche decina di metri, poi torno a cercare le lucciole, mi ci vorrà del tempo per riabituare gli occhi, per farli tornare alla loro dimensione.

Un motore viaggia ringhiando nell’aria, si avvicina, lo sento perfettamente, ma attorno a me non vedo comparire nulla, nessuna luce, da nessuna parte.

Il ringhio si trasforma in frenata.

Non capisco a che cosa.

Un boato.

Serva correre così.

Uno schianto spaventoso è esploso nell’aria.

Poi rumore di cristalli che cadono, plastica spaccata.

Mi ritrovo piegato sulle ginocchia.

È comparsa una luce, punta il cielo notturno.

Sarà almeno a cinquecento metri da me.

Inizio a correre in quella direzione, la valigia mi sbatte sulla gamba, arrivo a un incrocio, giro a destra, subito dopo imbocco una via a sinistra.

In lontananza delle luci confuse, il fiatone inizia a rallentarmi.

Quello che vedo mi inchioda i piedi all’asfalto.

Al centro della strada due macchine, distrutte. Pezzi sparsi ovunque. La luce che puntava verso l’alto è un faro.

Non arriva voce. Lamento.

Mi strappo un passo alla volta.

Si sono presi frontalmente. Della macchina che ho davanti riconosco lo sportellone posteriore, è una 205 Rallye. Del muso dell’altra non è rimasto nulla.

Sono a una ventina di metri.

Dietro di me sento fermarsi qualcuno.

Sportelli che si aprono.

Mi ritrovo a fianco due ragazzi.

Ci guardiamo.

Uno dei due, quello più grande, ci sfila accanto, prosegue verso l’incidente, noi gli andiamo dietro.

Le lamiere delle due macchine sembrano cauterizzate, bruciate.

Io dovrei fermarmi.

Non voglio vedere.

Ma non ci riesco.

Non può esistere.

Dio mio levami dagli occhi quello che vedo.

Il ragazzo della 205.

Il sangue deve stare nel corpo.

Un manichino senza grazia. Svuotato d’anima.

«Vojo torna’ a casa.»

Una palazzina poco distante si accende, un uomo in canottiera e calzoncini, a fianco una vecchia in vestaglia.

«ABBIAMO CHIAMATO I CARABINIERI E L’AMBULANZA! MALEDETTI VENGONO A FARE I PAZZI!»

Il ragazzo che ho di fianco sembra preso da un conto matematico, da un’equazione difficilissima. Non si capacita.

«Vojo torna’ a casa.»

Io non ero pronto.

A questa cosa sfigurata.

Non sono pronto.

Excerpt - Translation

Translated from Italian by Antony Shugaar

A yellow Opel Kadett.

I’ve taken rides from plenty of taxi drivers. There’s one who’s something of a regular presence, a gentleman who leaves the Castelli Romani to go to work in Rome. I’m not trying to be mean, but when I see his car coming, I stop hitchhiking; sometimes I actually walk away from the side of the road. But he still stops all the same. Oh, don’t get me wrong, he’s a perfectly nice person, likeable enough and all. But he has one serious problem, and I really don’t know how to tell him. In middle school, I had a teacher who had the exact same issue. It was her breath. And I’m talking about levels of halitosis that truly shouldn’t exist on the face of this earth.

“I’m heading to Casa del Diavolo.”

“I’m going right near there.”

The taxi driver smokes the same brand of cigarettes as I do. MS, hard pack.

“I’m going to the Red Zone, the disco.”

“Every so often, I take a passenger there.”

“Are you going there now?”

Maybe I can get him to drop me off right at the front door. I might not have enough money to get in, but at least I’d arrive in grand style.

“No, I have a call from a street that’s on the far side of that little village. You’ll have a good long walk ahead of you from where I’ll drop you off.”

“My name is Daniele. How about you, sir?”

“I’m Armando.”

I can’t say whether this exchange of names — one offered and the other requested — really has anything to do with good manners. Come to think of it, I think it’s a way of concealing the fear that washes over me every time I get into a car driven by a complete stranger, and to make it worse, at night, and worse yet, far from home, plus absolutely no one has the slightest idea of where I even am. Because there’s always a bit of fear, at the very least.

Possessing the name of my latest benefactor at least gives me the illusion of knowing, at least to some small extent, their identity and their intentions. Nonetheless, deep inside there’s always a part of me that’s quivering in alarm. Armando could pull over, reach into the driver’s side accessory pocket, extract a screwdriver, and plant it in my throat, just like that, without blinking an eye, and then bury me in any of the surrounding woods.

“So, tell me, Armando, where are you from?”

“Perugia.”

“Are you married?”

“Divorced.”

Meanwhile, the Kadett rolls past a sign that announces in black letters on a white background my destination: CASA DEL DIAVOLO.

“I’ll drop you off at the start of the next street.”

“Thanks.”

I get out and my breathing slows down to a normal rate. I’d been frightened, which happens to me all the time. All I have to do is loosen the reins on my mind, and things are sure to turn out well.

What a fool I am. Even if he’d had the worst intentions, I’d have fought him off. In fact, though, he was a perfectly nice person, like everyone else I’ve taken rides from so far.

Plus, he smoked MS, hard pack.

How bad could he be?

I walk toward the sound of a pounding, four-on-the-floor beat.

The air is filled with the Red Zone beat, so I do my best to head in the general direction of the music, but it doesn’t seem to be coming from anywhere specific. In fact the sound seems to shift around me incessantly. My destination is located on Via Fratelli Cervi. Easier said than done.

I see no lights, not even in the distance. The houses and the industrial sheds are all immersed in utter darkness, as are the roads. This place seems uninhabited.

Only the headlights of passing cars light up my surroundings; they zip by, with a whoosh of air. As I see them coming, I do my best to beseech a ride, but it’s seriously too dark. I open my suitcase and pull out the sweater I like best: navy blue, cotton. The night is getting chilly, the coolth reaches me in faint gusts from the meadow alongside me.

Right there, in the grass, at no more than a few yards’ distance, I glimpse something. It seems like a light. More than by fear, I’m frozen to the spot by terror. I squint my eyes, peering to see what’s there. The light reappears, followed by another light nearby. My eyes slowly grow accustomed, and a carpet of light spreads out, as far as my eyes can see, all the way to the distant trees.

My terror turns into wonder, astonishment, and enchantment.

I’d only ever even heard of this, if seen strictly in the cartoons.

A populace of fireflies dances at my feet.

Like pirouetting stars that have fallen to earth.

A spectacle that leaves me speechless.

Light in the darkness.

Beauty must be experienced in real life. Any account of beauty, no matter how accurate, how skillfully woven, is insufficient to convey the joy one feels in the presence of certain visions, much less the gratitude that fills one’s eyes with tears.

Headlights in the distance. Artificial light conceals the microscopic glow of nature.

I stick out my thumb, and a split-second later I switch on my smile. A techno beat slows to a halt.

A Renault 5 pulls up.

“Are you going to the Red Zone?”

“Wassup, son, goin’ dancin’ with your suitcase?”

The carful bursts into a loud laugh issuing from multiple mouths. Their dialect is the same as mine. These are Romans.

“Any chance of a ride, bro?”

The young man I’m talking to has long hair and haunted, staring eyes. His pupils are dilated, which means either cocaine or some other pills or tablets — by now I’m a dab hand at recognizing narcotics, starting with the distinctive effects they have on the eyes. I can see the three heads of the passengers in the back seat, but there’s not enough light to get a good look at their faces.

“Yo, where would we even put you? There’s five of us. But if you want, we can take your suitcase.”

Another blare of assholish laughter.

“Or else you can ride on the roof. But you’d better hold on tight!” The Renault 5 takes off again, tires screeching.

I watch them peel out for fifty feet or so, and then I go back to looking for fireflies. It’s going to take some time for my eyes to rehabituate to the darkness, to let them return to the fireflies’ dimension.

An engine comes sailing through the night air, snarling its way on a hurtling trajectory, drawing closer, and though I can hear it clearly nothing appears around me, no light, neither here nor anywhere.

The snarl turns into the screech of brakes.

I can’t figure out from where, though.

The roar of impact.

That’s what you get for going so fast.

A terrifying crash has just detonated into the air.

Then the noise of glass falling, crunching plastic.

I find myself bent over on my knees.

A light has appeared, pointing straight up into the night sky.

It must be five hundred yards away.

I start running in that direction, the suitcase slamming against my leg. I reach an intersection and turn right; a short distance later, I turn down a road on the left.

In the distance, a tangle of lights. My gasping breath starts to slow me down.

What I see now nails my feet to the asphalt.

In the middle of the road are two cars, utterly destroyed. Pieces of them scattered in all directions. The light pointing straight up is a headlight.

Not a voice to be heard. Not a moan.

I tear free one step after another.

The two cars must have crashed head-on. Of the car right in front what I can recognize is the rear hatchback. It’s a Peugeot 205 Rallye. There is nothing left of the other car’s front.

The two wrecks are about twenty yards away.

Behind me, I can hear someone braking to a halt.

Car doors opening.

Now there are two young men standing beside me.

We exchange glances.

One of them, the elder of the two, walks past us and continues toward the wreck. We follow behind.

The twisted sheet metal of the two cars seems to have been scorched, cauterized.

I ought to stop.

I don’t want to see it.

But I can’t help it.

This can’t be real.

Oh my God, cleanse my eyes of what I’m seeing right now.

The young man in the Peugeot 205.

Blood is supposed to stay inside your body.

A clumsy mannequin. Stripped of its soul.

“I wanna go home.”

An apartment house not far away lights up, a man in boxer shorts and undershirt, beside him an old woman in a dressing gown.

“WE’VE CALLED THE CARABINIERI AND AN AMBULANCE! DAMNED IDIOTS COME OUT HERE, DRIVING LIKE LUNATICS!”

The young man standing next to me seems to be struggling with some sort of mathematical reckoning, a terribly challenging equation. He can’t make himself see.

“I wanna go home.”

I wasn’t ready for this.

For this disfigured… thing. I’m not ready.